Siccome adoro il mio lavoro, mi sono imposto di non pensarci mai la domenica […]

(Coelho, 2009)

Workaholism è un termine che fa la sua prima comparsa ormai ben 50 anni fa, quando lo psicologo americano Oates (1971) lo introduce per descrivere quel lavoratore che presenta “una compulsione o un bisogno incontrollabile di lavorare incessantemente” (p.11), tale da creare interferenza e compromissione nelle altre dimensioni della sua vita, come la salute personale o il funzionamento sociale. Questo neologismo nasce dalla combinazione delle parole inglesi work (lavoro) e alcoholism (alcolismo), teso a sottolineare la natura comune dei due tipi di dipendenza. In Europa, il 21% degli uomini ed il 9% delle donne lavora 48 ore o più a settimana. Tale dato si impenna per I lavoratori autonomi con dipendenti, raggiungendo il 55% (European Foundation, 2015). Orari lavorativi simili sono associati ad una compromissione dell’equilibrio tra vita privata e professionale e a gravi problematiche di salute quali depressione, ansia, disturbi del sonno e coronopatie (Bannai & Tamakoshi, 2014). Eppure, la dipendenza dal lavoro (workaholism o work addiction) spesso appare come una caratteristica positiva nella nostra società: non a caso Robinson (1998a) la chiama “the well-dressed addiction” (la dipendenza ben vestita).

 

In prima battuta, si potrebbe pensare che il workaholism rappresenti un vantaggio nel mondo del lavoro, ma in realtà non è così: tipicamente, implica la tendenza a complicare le proprie mansioni più del dovuto (Machlowitz, 1980), a sovraccaricarsi senza mai delegare il benché minimo compito (Spence & Robbins, 1992) e ad instaurare dinamiche relazionali problematiche con i propri colleghi, caratterizzate da interazioni aggressive, sfiducia e competizione (Balducci et al., 2012). Quindi, la dipendenza da lavoro non porta a miglioramenti nella produttività e nell’efficacia lavorativa, anzi: le caratteristiche definitorie del workaholism minano l’efficienza del lavoratore su varie dimensioni, nonostante il suo estremo investimento di tempo ed energia. A livello motivazionale, l’individuo sperimenta una forte pressione interna a lavorare, talvolta una vera e propria compulsione. Sul piano cognitivo, la mente è occupata da preoccupazioni persistenti ed incontrollabili riguardo al proprio lavoro, mentre sul piano emotivo la persona è assalita da intense emozioni negative (come ansia o senso di colpa) quando non sta lavorando. Infine, a livello comportamentale, l’individuo lavora eccessivamente, andando ben oltre quanto richiesto e/o atteso dalla sua prestazione lavorativa (Clark, Haynes & Smith, 2020). Quest’ultimo aspetto è senza dubbio il più visibile dall’esterno, ma non basta per comprendere appieno l’impatto del workaholism nella vita di un individuo. Le persone workaholic riferiscono sì un quantitativo maggiore di tempo dedicato al lavoro (ore lavorative, straordinari e tempo al di fuori dell’ambiente lavorativo, per esempio a casa durante il dopocena o nel fine settimana), ma non solo: si sentono profondamente assorbiti dalle attività lavorative mentre le svolgono e dichiarano che il lavoro ha un’importanza centrale nel definire la loro identità. Questi elementi rendono difficile prendere le distanze dal lavoro sotto molti punti di vista, che spaziano dalla gestione del tempo al focus dei propri pensieri e degli argomenti di conversazione con gli altri (McMillan et al., 2004).

 

I fattori di rischio noti si rintracciano a livello sia personale che organizzativo. Il perfezionismo predispone allo sviluppo del workaholism attraverso l’adozione di standard eccessivamente elevati e la percezione di una maggior discrepanza tra la performance attuale e quella attesa (Clark, Lelchook & Taylor, 2010). Altri tratti associati sono l’inflessibilità, la competitività, l’ambizione, un forte orientamento al risultato e l’affettività negativa di tratto. In particolare, quest’ultima rappresenta la tendenza a sperimentare in misura maggiore stati affettivi negativi come l’ansia o il senso di colpa e dunque predispone l’individuo sia ad essere costantemente preoccupato per il proprio lavoro, sia a sentirsi in colpa quando non si dedica ad esso (Ng et al., 2007). Le tendenze workaholic determinate da questi fattori individuali trovano un terreno particolarmente fertile per dispiegarsi all’interno delle culture organizzative che premiano l’overworking (Mazzetti, Guglielmi & Schaufeli, 2020).

 

Le conseguenze del workaholism si ripercuotono tutti gli aspetti della vita di un individuo. La dipendenza dal lavoro provoca da un lato livelli elevati di stress (sia lavorativo che generale), dall’altro un deterioramento del benessere e salute psicofisica. Questi effetti sono determinati sia in modo diretto, sia indirettamente, per esempio attraverso il sentirsi costantemente pressati a lavorare, in colpa ed in ansia, l’assenza di tempo dedicato all’esercizio fisico e al debito riposo, la riduzione delle ore di sonno notturne, la scarsa cura della propria alimentazione ed il consumo di tabacco (Ng et al., 2007). Inoltre, dato che gli individui workaholic lavorano incessantemente, non si concedono un adeguato riposo ed hanno difficoltà a “sconnettere” la propria mente dal lavoro anche quando potrebbero, presentano un alto rischio di incorrere nel burnout (Andreassen, Ursin & Eriksen, 2007). L’organizzazione in cui lavorano ne risente perché si innesca un cortocircuito di stress lavorativo (Spence & Robbins, 1992) e dinamiche controproducenti tra colleghi (Balducci et al., 2012). La vita sociale al di fuori del lavoro ne esce “atrofizzata” ed anche le rispettive famiglie soffrono per il disequilibrio tra vita professionale e personale dell’individuo: la sua capacità di rivestire il proprio ruolo familiare si deteriora e la qualità delle relazioni familiari si impoverisce, mentre aumentano la disaffezione ed i conflitti con il partner (Robinson, 2001).

 

Prevenire e trattare il workaholism è reso difficile da varie criticità. In primis, proprio perché il lavoro rappresenta una virtù per la maggior parte delle società, la pressione sociale a ricercare un trattamento per tale condizione non è forte e gli individui con workaholism non riconoscono o rinnegano il loro problema: spesso raggiungono lo psicologo a causa dei loro comportamenti lavorativi controproducenti con i colleghi oppure dopo essersi recati da un medico per lamentele legate a sintomi somatici. Inoltre, mentre per le dipendenze da sostanze l’astinenza è una soluzione auspicabile, nel caso della work addiction (che è una dipendenza comportamentale) è assolutamente impensabile che l’individuo smetta del tutto di lavorare (van Wijhe, Schaufeli & Peeters, 2010). Lo stato dell’arte per quanto riguarda la prevenzione ed il trattamento del workaholism vede molte proposte ed una grande necessità di testarne rigorosamente l’efficacia.

 

Cosa si può fare per prevenire il workaholism?

In ottica preventiva, è stato proposto di lavorare sulla cultura organizzativa o sulla resilienza dei lavoratori. La cultura organizzativa fondata sull’ “eroismo dell’hard-working” (in cui l’individuo che sacrifica tutto per il lavoro viene preso a modello) dovrebbe essere sostituita da una cultura che valorizza un sano equilibrio vita-lavoro e che premia il lavoro intelligente, al posto di quello estenuante. Ciò è possibile solo se i superiori supportano i valori predicati e fanno da modello per gli altri dipendenti (Mazzetti, Guglielmi & Schaufeli, 2020). Inoltre, si può rafforzare la resilienza dei lavoratori fornendo loro programmi di training per potenziare set di abilità specifiche (come la gestione del tempo e dello stress, le abilità sociali, la gestione dei conflitti interpersonali o l’assertività).

 

Cosa si può fare per trattare il workaholism?

Gli individui con work addiction spesso provano un’ambivalenza tra la motivazione al cambiamento e quelle che sembrano buone ragioni per continuare a lavorare come in precedenza. Per risolvere questa ambivalenza ed accompagnare l’individuo mentre acquisisce gradualmente consapevolezza e prontezza al cambiamento, potrebbe essere utile ricorrere ad un’intervista motivazionale (DiClemente & Prochaska, 1998). Un altro accorgimento utile in fase preliminare potrebbe essere quello di effettuare una “mappatura” del funzionamento, dei ruoli e dei pattern di comunicazione che caratterizzano il sistema familiare di appartenenza dell’individuo (Robinson, 2001). L’assetto cognitivo dell’individuo workaholic è caratterizzato da credenze irrazionali (e.g. “io sono l’unico che può occuparsi di questo lavoro”), doverizzazioni (e.g. “devo finire ad ogni costo tutto entro la scadenza”) e regole implicite che lo portano a continuare incessantemente a lavorare perché “non ho fatto abbastanza”. Per lavorare su questi aspetti, è stata avanzata la proposta di applicare tecniche cognitivo-comportamentali per promuovere la consapevolezza e la riformulazione di convinzioni e pensieri irrazionali (Chen, 2006; Holland, 2008).  Altre possibilità suggerite in letteratura sono la terapia familiare (Robinson, 1998b), un protocollo basato sulla mindfulness (Van Gordon et al., 2017) e gruppi di auto-aiuto ispirati al sistema degli Alcolisti Anonimi (Workaholics Anonymous, non presenti in Italia al momento).

 

Per concludere, nei 50 anni dalla prima definizione di Oates (1971) sono stati fatti grandi passi in avanti nella comprensione del workaholism, dei suoi fattori di rischio e delle sue conseguenze. Essendo un fenomeno che riguarda non soltanto l’individuo, ma anche la sua organizzazione, le sue relazioni sociali e la sua famiglia, sono stati suggeriti vari interventi di prevenzione e trattamento focalizzati specificatamente su alcuni di questi target. Tuttavia, è ancora forte la necessità di approfondire ulteriormente le variabili associate al workaholism e testare rigorosamente l’efficacia degli interventi proposti finora, Anzi, forse oggi più che mai, perché la transizione allo smart-working richiesta dalla pandemia di COVID-19 ha avuto indubbiamente alcuni lati positivi, ma ha anche reso estremamente più difficile delimitare con chiarezza i confini tra lavoro e vita privata.

 

Autrice: Dott.ssa Benedetta Tonini

Revisora: Dott.ssa Sabrina Masetti

 

Bibliografia:

Andreassen, C. S., Ursin, H., & Eriksen, H. R. (2007). The relationship between strong motivation to work,“workaholism”, and health. Psychology & Health, 22(5), 615–629.

 

Balducci, C., Cecchin, M., Fraccaroli, F., & Schaufeli, W. B. (2012). Exploring the relationship between workaholism and workplace aggressive behaviour: The role of job-related emotion. Personality and Individual Differences, 53(5), 629–634.

 

Bannai, A., & Tamakoshi, A. (2014). The association between long working hours and health: a systematic review of epidemiological evidence. Scandinavian journal of work, environment & health, 40(1), 5

 

Chen, C. P. (2006). Improving work-life balance: REBT for workaholic treatment. In R. J. Burke (Ed.), New horizons in management. Research companion to working time and work addiction (p. 310–329).  Edward Elgar Publishing.

 

Clark, M. A., Smith, R. W., & Haynes, N. J. (2020). The Multidimensional Workaholism Scale: Linking the conceptualization and measurement of workaholism. Journal of Applied Psychology, 105(11), 1281-1307.

 

Clark, M. A., Lelchook, A. M., & Taylor, M. L. (2010). Beyond the big five: How narcissism, perfectionism, and dispositional affect relate to workaholism. Personality and Individual Differences, 48(7), 786- 791. 

 

Coelho, P. (2009, May 13). Edizione n. 198 – E cosa faccio, in fondo? Paulo Coelho Blog.

 

DiClemente, C. C., & Prochaska, J. O. (1998). Toward a comprehensive, transtheoretical model of change: Stages of change and addictive behaviors. In W. R. Miller & N. Heather (Eds.), Applied clinical psychology. Treating addictive behaviors (p. 3–24). Plenum Press. 

 

European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions (2015). Sixth European Working Conditions Survey, Dublin: European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions.

 

Holland, D. W. (2008). Work addiction: Costs and solutions for individuals, relationships and organizations. Journal of Workplace Behavioral Health, 22(4), 1–15.

 

Machlowitz, M. (1980). Workaholics. New York: Mentor.

 

Mazzetti, G., Guglielmi, D., & Schaufeli, W. B. (2020). Same Involvement, Different Reasons: How Personality Factors and Organizations Contribute to Heavy Work Investment. International journal of environmental research and public health, 17(22), 8550.

 

McMillan, L. H. W., O’Driscoll, M. P., & Brady, E. C. (2004). The impact of workaholism on personal relationships. British Journal of Guidance & Counselling, 32(2), 171 186.

 

Ng, T.W.H., Sorensen, K.L. and Feldman, D.C. (2007). Dimensions, antecedents, and consequences of workaholism: a conceptual integration and extension. Journal of Organizational Behavior, 28, 111

 

Oates, W. (1971). Confessions of a Workaholic: The Facts about Work Addiction. New York: World Publishing.

Robinson, B. E. (1998a). Chained to the Desk: A guidebook for workaholics, their partners and children, and the clinicians who treat them. New York, NY: New York University Press.

Robinson, B. E. (1998). The workaholic family: A clinical perspective. American Journal of Family Therapy, 26(1), 65–75.

 

Robinson, B. E. (2001). Workaholism and family functioning: A profile of familial relationships, psychological outcomes, and research considerations. Contemporary Family Therapy: An International Journal, 23(1),   123–135.

 

Van Gordon, W., Shonin, E., Dunn, T. J., Garcia-Campayo, J., Demarzo, M., & Griffiths, M. D. (2017).

Meditation awareness training for the treatment of workaholism: A controlled trial. Journal of  behavioral addictions, 6(2), 212–220. https://doi.org/10.1556/2006.6.2017.021

 

Spence, J. T., & Robbins, A. S. (1992). Workaholism: Definition, measurement, and preliminary results. Journal of Personality Assessment, 58(1), 160–178.      https://doi.org/10.1207/s15327752jpa5801_1 van Wijhe, C. I., Schaufeli, W. B., & Peeters, M. C. W. (2010). Understanding and treating workaholism:

Setting the stage for successful interventions. In R. J. Burke & C. L. Cooper (Eds.), Risky business.

Psychological, physical and financial costs of high risk behaviour in organizations (pp. 107-134).  Farnham, UK: Gower Publishing, Ltd.