La salute mentale ha attraversato un lungo e faticoso cammino prima di affermarsi a livello scientifico e sociale: “A seconda dei casi, [al folle] viene assegnato uno status religioso, magico, ludico o patologico”, scriveva Michel Foucault nel 1961.

L’amara riflessione di Ron Powers prende le mosse dalla tragica esperienza personale con la schizofrenia: padre di due figli, affetti entrambi dallo stesso male, segue nel suo libro due traiettorie parallele: ripercorre da un lato le tappe salienti della propria vita familiare, colma di intense e struggenti emozioni, mentre dall’altro traccia la storia della malattia mentale negli USA.

Prendendo spunto dalle leggi italiane che hanno previsto la chiusura degli ospedali psichiatrici civili e giudiziari, descrive le “buone pratiche” che si sono susseguite nei decenni nel contesto statunitense.

Che cos’è la psichiatria?” è la domanda che si pone l’autore constatando che in quasi tutto il mondo “civile” le politiche di salute mentale sono basate sul pregiudizio della pericolosità e della inguaribilità: dalla disumana contenzione all’isolamento, passando per tutte le forme di violenza subìte dalle vittime impotenti. Lo stigma e la discriminazione sono nemici di ogni forma di emancipazione, soprattutto, come in questo caso, quando non si ha neanche consapevolezza dei propri diritti.

Forse è stato proprio il desiderio di dar voce a tanta sofferenza a spingere Powers a descrivere come la malattia mentale abbia distrutto la sua serenità familiare, costringendolo a prendere atto che non basta avere una madre “buona”, amare e accudire i propri figli senza riserve, per evitare di finire nelle sabbie mobili della psicosi.

Possiamo considerarlo un libro di denuncia, di rivendicazione del diritto alla dignità; ma in questo caso la prospettiva non è quella dello scienziato né del politico di turno, bensì di chi  vive e combatte quotidianamente il dramma di cui parla.

Il racconto di Ron Powers parte dal viaggio verso il parlamento del Vermont, dove è diretto con la moglie per testimoniare in merito alla questione del cosiddetto intervento “involontario”: si possono trattenere i malati di mente contro il loro volere nei momenti di necessità e malessere acuti? Era il 30 gennaio 2014. Nel Vermont, come in altri Stati, i pazienti “involontari” portati in pronto soccorso non possono ricevere farmaci per il loro disturbo senza un ordine del tribunale che autorizzi il medico a procedere; ciò comporta tempi di attesa anche di mesi. Nell’udienza si scontrarono posizioni ideologiche: da un lato i sostenitori del trattamento involontario tempestivo , data l’incapacità per chi è preda della psicosi di decidere razionalmente; dall’altro i contrari che vi scorgevano una violazione delle libertà civili, con l’aggravante dell’abuso farmacologico. Fra questi ultimi figuravano le vittime della schizofrenia, malati e familiari, esclusi i coniugi Powers.

Tutta la vicenda narrata ripropone la straziante contraddizione di chi è dentro la malattia ma non riesce ad accettarne l’esistenza: i malati di schizofrenia radunati in quell’aula di tribunale non chiedevano pietà: “chiedevano comprensione”, volevano essere ascoltati come la “gente comune”; Ron si vergogna del suo stupore nel vederli lì “in carne ed ossa” e decide di guardare in faccia la sua sofferenza, facendosi portavoce dei suoi figli.

Rivive l’infanzia e l’adolescenza dei due ragazzi descrivendoli come persone “che hanno conosciuto l’amore, l’ilarità, la creatività, la speranza e la capacità di avere per il futuro gli stessi sogni degli altri”; a dispetto di quanti temono i “matti” in quanto pericolosi, deboli o immorali.

Entrambi brillanti e tenaci nel coltivare le proprie passioni, desiderosi come ogni giovane di trovare il proprio posto nel mondo; in un mondo purtroppo non sempre accogliente.

Kevin, il secondogenito, virtuoso musicista; comincia a soffrire di allucinazioni all’età di 17 anni. Inizialmente si pensò all’effetto di droghe. Il suo scompenso gli procurò un ricovero al termine del quale riprese i suoi studi ottenendo innumerevoli successi con la sua chitarra, fino alla chiamata notturna ai genitori in preda al delirio psicotico. Comincia da lì una serie di alterne vicende, di straordinarie esibizioni musicali, di equilibri precari, di euforia irrazionale e speranze grandiose, seguite da solitudine e isolamento, fino al tragico epilogo del suicidio. Aveva quasi 21 anni.

“Tutto nella vita di Kevin era orientato al futuro: aveva un gruppo musicale, frequentava il college, componeva musica e testi, era gentile e premuroso verso i bisognosi; aveva un senso dell’umorismo disarmante”; non bastò a salvarsi.

Il figlio maggiore, Dean, all’età di 16 anni viene accusato per aver provocato un incidente stradale in stato di ebbrezza (causato in realtà dall’eccesso di velocità); sconterà per anni il suo presunto alcolismo, fino a vedersi negata la cerimonia di diploma dalla sua scuola, sebbene ancora in attesa di sentenza. Ottenuta la libertà vigilata, grazie al sostegno familiare riprese la sua vita altrove; ma nella sua città nulla riuscì a scalfire il pregiudizio. Quel forte trauma rappresentò lo stadio prodromico della sua schizofrenia. Un giorno scrisse al padre, riguardo a una partita di football: “per me la partita era truccata, probabilmente dal governo”. Trascorsero anni di sofferenze, crisi, ricoveri, fino al tentato suicidio. Tuttavia, Dean avrà la fortuna di imbattersi in un giovane psichiatra che lo “costringerà” a impegnarsi in un percorso grazie al quale, associando la terapia farmacologica ai colloqui, riuscirà a gestire la sua indesiderata compagna di vita.

 

Autrice: Dott.ssa Milena Ferraro