DAL PERSONALE AL SOCIALE. RIFLESSIONI SULLE DINAMICHE CHE POTREBBERO AVER CONTRIBUITO ALL’AUMENTO DELL’INSORGENZA DI ANSIA E DEPRESSIONE NELLE PERSONE OVER 65 AL TEMPO DEL COVID-19

 

Nel presente articolo cercheremo di parlare per “fasce d’età”, piuttosto che di “persone anziane”, per il fenomeno del counter ageing che esplica come nella nostra società stia avendo luogo un processo di vero e proprio “svecchiamento”. Ovvero, sebbene anagraficamente la popolazione sia sempre più anziana, i problemi tipici della “vecchiaia” si presentano tendenzialmente più tardi (Istat, 2020). Una persona di 65 anni infatti può tranquillamente dichiarare di trovarsi in un periodo di elevato benessere psico-fisico (Istat, 2019).

La popolazione italiana al primo gennaio 2020 ha ottenuti il primato della “più anziana d’Europa” contando 13.946.954 persone over 65 su 60.244.693 (TUTTAITALIA, 2020, Istat, 2020). L’indice di vecchiaia era di 178,4, in aumento di 34,4 punti rispetto al 2010 (TUTTAITALIA, 2020).

Ovviamente, rispetto al primo gennaio, le cifre sono cambiate. In questa sede però non riporteremo il numero dei morti da marzo ad oggi sia perché siamo continuamente sommersi da queste informazioni sia perché non sono numeri necessari ai fini della nostra riflessione.

 

In questo articolo metteremo in relazione due esiti della salute (ansia e depressione) con il fatto di avere più di 65 anni. La popolazione “anziana”, infatti, sembra essere quella che soffre maggiormente di depressione (14,9% della popolazione con sintomi depressivi ha più di 65 anni) (Istat, 2015-2017). Sebbene rispetto agli altri Paesi Europei gli abitanti italiani soffrano meno di sintomi depressivi, ciò non vale per gli over 65 in Italia, la cui prevalenza raddoppia rispetto ai valori della media nelle altre fasce d’età. Inoltre, sempre in Italia, all’aumentare dell’età sembrerebbe crescere nella popolazione anche la prevalenza dei disturbi d’ansia cronica (al 14,9% dopo i 65 anni, mentre al 5,8% dai 35 ai 64) (Istat, 2015-2017).

 

Un dato importante da considerare quando si parla di persone over 65 sono le relazioni sociali, poiché la qualità di quest’ultime correla in modo importante con un maggiore benessere della persona (Phillipson & Powell, 2004). Dati del 2018 mostrano che il 18,2% delle persone tra i 65 e i 74 anni vivevano in coppia e ricoprivano ancora il ruolo di genitori (Istat, 2019), mentre ad avere lo stesso ruolo sono solo il 6,6% tra i 75 e gli 84 anni. Infine, il 57,4% delle persone ultra 84enni vive sola (in questo caso il divario di genere è forte: 45,5% delle donne contro l’11,9% degli uomini). Sempre tra gli over 84 una percentuale più alta delle altre fasce (il 10%) co-abitava con membri più giovani della famiglia. Ovviamente, le condizioni abitative e relazionali delle persone dai 65 anni possono variare notevolmente a seconda dell’età, dello status socioeconomico, del genere e del luogo in cui vivono (Istat, 2020).

 

Cosa si intende per depressione e ansia?

La depressione nel DSM-5, rientra tra i disturbi dell’umore e va distinta dalla comune tristezza. Si divide principalmente in due tipologie il “disturbo depressivo maggiore” e il “disturbo depressivo persistente”. Per depressione, a livello generico, si intente “uno stato di profonda tristezza e/o l’incapacità di provare piacere” (Kring, Johnson, Davison, Neale, 2017). I sintomi depressivi, che in co-presenza e per un lungo periodo di tempo funzionano da campanello d’allarme per un’eventuale diagnosi, possono essere: problemi relativi al sonno (dormire troppo o troppo poco), agitazione o rallentamento psicomotorio, modificazioni nell’appetito o nel peso, sentimenti di autosvalutazione e/o senso di colpa, difficoltà a concentrarsi, disperazione, pensieri relativi alla morte ecc. (Kring et al., 2017).

 

L’ansia genericamente può essere descritta come “un senso di apprensione che si prova nell’anticipazione di un certo problema” (Kring et al., 2017: 171), sebbene anch’essa porti a sperimentare l’attivazione del sistema nervoso simpatico, differisce dalla paura poiché non si presenta nel momento di pericolo, bensì lo anticipa (Kring et al., 2017). È importante ricordare che l’ansia di per sé non è negativa, ma necessaria per la sopravvivenza e per rimanere attivi in presenza di eventuali minacce o compiti in cui è necessario essere concentrati. Sia la sua assenza che l’eccessiva presenza possono essere quindi potenzialmente dannose (Kring et al. 2017). Sebbene i disturbi d’ansia siano di diverso tipo, in questa sede ci soffermeremo solamente sul disturbo d’ansia generalizzato (GAD), che può portare una persona ad essere costantemente preoccupata, anche per eventi irrilevanti.

 

Negli over 65 i sintomi del GAD e della depressione si trovano spesso in comorbilità (Domènech-Abella, Mundó, Haro & Rubio-Valera, 2019, Flint, 2005, Kring et al., 2017). È importante sottolineare che per parlare di veri e propri disturbi, i sintomi devono prolungarsi per almeno 6 mesi (Hasin, Sarvet, Meyers, Saha, Ruan, Stohl & Grant, 2018) e che solo il clinico potrà effettuare una diagnosi grazie a una valutazione olistica della persona.

In ogni caso, è bene ricordare che sebbene gli over 65 in Italia con depressione e GAD sono presenti in numero maggiore rispetto alle altre fasce di popolazione, la maggior parte non soffre di problemi cognitivi gravi, ma di un leggero declino del funzionamento cognitivo e che, anzi, tendenzialmente, rispetto alle altre fasce d’età sono più esperti nella regolazione delle emozioni (Kring et al., 2017). Inoltre, le persone che superano i 65 anni tendono alla “selettività sociale”, ovvero a dare importanza a “poche ma buone” relazioni sociali (Kring et al. 2017). Come abbiamo detto prima, ciò che li differenzia dalle persone più giovani è soprattutto l’alta probabilità di presentare più disturbi fisici contemporaneamente e di aver sperimentato più eventi negativi nel corso della loro vita (es. lutti o perdite di altro tipo) (Kring et al., 2017).

Come ogni patologia la possibile insorgenza della depressione e/o del disturbo d’ansia generalizzato dipendono dalla predisposizione genetica, dai meccanismi psicologici, dall’ambiente e dalle esperienze vissute delle persone coinvolte (Schiele & Domschke, 2018). In particolare, eventi traumatici o stressanti ripetuti rendono i soggetti più vulnerabili (Schiele & Domschke, 2018).

 

Prendendo in esame in questa sede proprio gli “eventi stressanti”, come già sappiamo e abbiamo ampiamente potuto sperimentare, l’insorgenza della malattia respiratoria Covid-19 a dicembre 2019, ha portato a dei cambiamenti sostanziali nella vita di tutti noi. La proclamazione di stato di epidemia prima in Cina e poi di pandemia in Italia e successivamente a livello mondiale, ha sconvolto degli schemi prestabiliti, degli script consolidati nel tempo che avevamo appreso e a cui ci eravamo adattati da tempo. La maggior parte delle persone infatti è stata costretta a rivalutare le proprie priorità.

 

Ciò che sappiamo ad oggi è che il Covid-19 nelle persone anziane tende a manifestarsi maggiormente con sintomi rispetto ai giovani, ma che allo stesso tempo né giovani né bambini sono immuni e anch’essi possono incorrere nella forma più grave della malattia (Ministero della salute, 2020). Gli individui over 65 hanno però più probabilità di presentare altre patologie in comorbilità e per questo sviluppare complicanze di diverso tipo (Istituto Superiore di Sanità, 2020).

 

È interessante a questo punto cercare di capire se esistono delle correlazioni tra la presenza della pandemia mondiale, il GAD e la depressione. Alcuni studi hanno già provato ad analizzare questa relazione e sembra che in generale la presenza del Covid-19 correli (in più di uno Stato) con sintomi di ansia, depressione, rischio suicidario, paura del contagio e insonnia (Sher, 2020, Li, Wang, Xue, Zhao & Zhu, 2020).

Per quanto riguarda l’età invece le analisi presenti in letteratura sono in contrasto e cambiano a seconda del Paese di riferimento. In Irlanda per esempio i cittadini di età superiore ai 65 anni sembrano avere sperimentato durante la quarantena più sintomi di ansia e depressione delle altre fasce d’età, probabilmente collegato all’allarme di maggiore mortalità (Hyland et al., 2020). In Canada invece i risultati hanno mostrato il contrario (Nwachukwu, 2020).

 

La relazione tra pandemia mondiale, ansia e depressione, potrebbe essere però mediata da alcune variabili, poiché a seconda dei Paesi le politiche di prevenzione e gestione del virus, ma soprattutto la diffusione delle informazioni cambia drasticamente.

Per esempio, nella maggior parte dei Pesi la presenza del Covid-19 ha portato le persone a dover sperimentare l’isolamento sociale forzato e ciò in alcuni casi ha potuto suscitare sensazioni di forte solitudine (Dahlberg, Andersson & Lennartsson, 2018). Le persone che sperimentano emozioni legate alla solitudine, se non hanno un “intorno” e un assetto psicologico forte e strutturato, possono mettere in atto meccanismi di difesa disfunzionali, per tentare di auto proteggersi nel breve periodo. Questi comportamenti (come l’ulteriore autoisolamento, apparentemente volontario) potrebbero danneggiarli a lungo termine, poiché la percezione di emarginazione condivide gli stessi meccanismi psicologici di una situazione ripetuta di dolore fisico, tenendo la persona in un costante stato di allerta e attivazione (Cacioppo & Cacioppo, 2018). A sua volta il senso di isolamento sembra avere un ruolo nel predire la presenza del GAD e del Disturbo Depressivo Maggiore (Domènech-Abella et al., 2019). L’isolamento sociale potrebbe quindi essere uno dei moderatori tra la presenza del Covd-19 e gli stati di ansia e depressione delle persone coinvolte. Sebbene la fascia di popolazione over 65, come abbiamo detto precedentemente, sembri essere più protetta delle altre fasce d’età, perché più abituata a sperimentare la solitudine sia per le maggiori esperienze di vita (Domenech-Abella, Mundó, Lara, Moneta, Haro & Olaya, 2017), altri studi mostrano invece come l’isolamento provochi l’insorgenza o aggravi disturbi di ansia e depressione. Questo vale in particolare per coloro che non avvertono la sensazione di un “buon sostegno sociale” e che si sentono abbandonati (Santaera, Severdio, Costabile, 2017, Santini, Jose & Cornwell, 2020). Inoltre, durante la pandemia, soprattutto nel primo periodo di lock-down, è aumentata nelle persone, in particolare per i soggetti considerati “a rischio” (tra cui anche gli over 65), la paura di ammalarsi e di morire, una paura che, se sperimentata a lungo anch’essa, può portare prima a sentimenti di evitamento o rabbia e poi ad ansia e depressione (Ornell, Schuch, Sordi & Kessler, 2020).

 

Sebbene questa sia la prima pandemia della storia con queste caratteristiche specifiche, studi che hanno analizzato altre epidemie mostrano che i risvolti sulla salute mentale e l’incidenza dei disturbi possono nel lungo periodo avere un impatto maggiore della pandemia stessa (Ornell et al., 2020).

 

Un altro aspetto meno studiato in relazione al Covid-19 è il forte potere che i mezzi di comunicazione possono avere sulla salute mentale delle persone (Ho, Chee & Ho, 2020). Dalla tv, che comprende notizie uguali per tutti (e quindi relativamente controllabili) ai social, i cui contenuti cambiano invece per ciascun individuo. Una conoscenza non adeguata delle notizie relative alla pandemia può infatti causare gravi reazioni d’ansia (Ornell et al., 2020). Inoltre, una reazione legata alla paura è la tendenza ad aggrapparsi al “bisogno di chiusura cognitiva” e alla semplificazione della realtà (Palmonari et al., 2002). Rispetto a questo concetto è infatti interessante provare a fare una riflessione non solo su come la presenza della pandemia, dell’isolamento sociale e la paura della morte correlino con gli stati di ansia e depressione nei soggetti over 65, ma come con questi disturbi possa entrare in relazione anche il concetto di “infraumanizzazione”

 

Cos’è l’infraumanizzazione?

L’infraumanizzazione è un processo simile alla deumanizzazione, la quale porta una persona a considerare una categoria meno umana di se stesso o dei suoi gruppi di appartenenza (Palmonari, Cavazza, & Rubini, 2002). A differenza di quest’ultima però non prevede una totale negazione dell’umanità dell’altro (Haslam & Loughnan, 2014).  È un fenomeno diffuso e difficile da modificare, poiché le persone che hanno un atteggiamento “infraumanizzante” ne sono spesso inconsapevoli (Leyens, Demoulin, Vaes, Gaunt & Paladino, 2007). L’infrumanizzazione, come la deumanizzazione derivano dalla tendenza delle persone a dividere il mondo in categorie per semplificarlo. Questa tendenza è di per sé necessaria alla sopravvivenza, il problema arriva quando le persone si dimenticano che le categorie sono formate da individui in carne ed ossa (Leyens et al, 2007).

 

Deumanizzaione e infrumanizzazione possono portare a fenomeni di esclusione sociale più o meno implicita e quindi provocare nel gruppo che si sente emarginato stati di ansia e sintomi depressivi (Fang, 2020).

 

In questi mesi, soprattutto sui social e nei titoli di alcune testate giornalistiche, è stato possibile notare come gli “anziani” siano stati spesso utilizzati inconsapevolmente come categoria “infraumanizzata”. Lo notiamo dai discorsi che sentiamo e che capita di pronunciare anche a noi come “È morto per covid-19. Ma quanti anni aveva? 80. Ah ecco.” oppure “muoiono solo quelli che sarebbero morti lo stesso”.

Queste frasi ripetute per mesi tranquillizzano infatti coloro che non si identificano nella categoria “anziano”, ma chi invece si ritrova in essa, cosa sta provando?

 

Come tutte le categorie gli “anziani” sono persone diverse, ognuna con le proprie caratteristiche e i propri punti di forza e come abbiamo detto prima magari anche più in salute di altre persone più giovani. È possibile che in questo periodo qualcuno si senta in una situazione di estremo pericolo anche in modo inappropriato per la propria forma fisica. Questo potrebbe portare a forti peggioramenti del proprio umore, causando uno squilibrio psicofisico che, si sa, può rendere le persone davvero più vulnerabili davanti a ogni tipologia di malattia (Kring et al. 2017).

 

Nonostante ciò, oggi (dicembre 2020) la percezione delle cose è un po’ cambiata, la paura infatti riguarda ognuno di noi, soprattutto perché il sistema sanitario è in molte regioni italiane al collasso e ci troviamo in un periodo difficilissimo, oscillando tra la necessità di vedere gli altri, costruire progetti e relazioni e la paura di non avere più un futuro. Il pericolo di ammalarsi c’è, esiste per tutti e la salute non è un fatto individuale, ma collettivo, per questo siamo tutti chiamati ad azioni di gentilezza e altruismo, poiché è l’unico modo per sopravvivere a questo periodo drammatico. Dobbiamo trovare un equilibro tra cosa ci fa paura e ciò che vogliamo e possiamo fare nella vita di tutti i giorni, esprimendo tutte le nostre preoccupazioni e trovando dei mezzi per superarle. I meccanismi di difesa che mettiamo in atto possono essere infatti quelli dell’attacco o della fuga, ma non possiamo continuare a utilizzarli per un periodo indefinito di tempo, poiché finiremmo per esaurire le nostre energie. Se riuscissimo invece a pensare maggiormente in termini di “io sono l’altro” e a cercare le nostre risorse in questa “nuova normalità” potremmo, sebbene limitati da alcuni mezzi, rimanere liberi in noi e ricordare agli altri che ancora lo possono essere. Se partiamo da questi presupposti, quando potremo avere un po’ meno paura del virus in sé, saremo in grado anche di pensare a che tipo di futuro vorremmo e a contrastare i meccanismi capitalistici e deumanizzanti che ci hanno portati fino a qui (Murshed, 2020). Sistemi di prevenzione che garantiscono agli individui la comprensione profonda dei propri stati d’animo e dei meccanismi di comunicazione tra individui, servono a non ridurre i soggetti in semplici categorie, ma a ricordarsi invece che si tratta sempre di persone che si parli di anziani, di donne, di transessuali, di immigrati ecc. Il problema è sociale e ci riguarda tutti in prima persona, chi ha più risorse ha il compito di aiutare chi le sta esaurendo. Bisogna fare attenzione, infatti, a non ridurre un problema sociale a un problema personale e guardare alla complessità della situazione. L’equità tra categorie e persone e il rispetto della complessità devono essere la nostra nuova priorità.

 

Dott.ssa Sabrina Masetti

Dott.ssa Irene Certini

Dott. Stefano Cosi

 

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